martedì 18 novembre 2014

Consapevolezza facendo la fila

Pubblico questo interessantissimo articolo tratto dal sito (che non chiede diritti in un vero spirito dharmico) “Zen in the city” (il link è: http://zeninthecity.org/7-modi-per-meditare-mentre-si-fa-la-fila/), che a questo punto, dopo la contemplazione del corpo, ci sta davvero bene anche per introdurre qualcosa dei prossimi Satipatthāna. Alla fine ci sono 2 note mie.

Fare la fila al supermercato, alla Asl o alle poste può essere noioso per alcuni, ma è una grande occasione per entrare in contatto col proprio corpo, con le sensazioni e con lo stato della mente. In altre parole, per meditare e di conseguenza migliorare la qualità della vita propria e altrui. Ecco alcuni esempi pratici, da integrare con la propria creatività:
1.    Prova a concentrarti sul respiro: inspirando, sono consapevole dell’aria che entra nel mio corpo; espirando, sono consapevole dell’aria che esce. Portare l’attenzione al respiro consente di creare un ponte tra la mente e il corpo e tornare così al momento presente, a ciò che c’è qui e ora. Se nel locale c’è la musica di sottofondo, questo esercizio è più difficile, quindi meglio che ne provi uno diverso.
2.    Prova a rilassare le parti del corpo che più di tutte risentono dello stress: il viso, innanzi tutto, poi le spalle (e conseguentemente il collo), poi la gola e infine l’addome. Il rilassamento è più facile se aiutato dal respiro e in particolare nella fase dell’espirazione. Questo esercizio, oltre a farti capire come sta il tuo corpo, e quindi come stai tu, ti farà sentire sicuramente meglio.
3.    Il body scan è un’azione più sistematica sul corpo e un lavoretto molto interessante da fare nelle pause. Consiste nel passare in rassegna tutto il corpo, dalla punta delle dita dei piedi fino alla sommità della testa. L’attenzione illumina ogni parte del tuo corpo con la luce della consapevolezza e ti fa entrare in pieno contatto con la tua parte corporea, portandole persino sollievo.
4.    Ripeti mentalmente queste 5 frasi (tra parentesi per ciascuna la sintesi per impararle a memoria):
inspirando, so che sto espirando, espirando, so che sto espirando (inspiro, espiro);
inspirando il mio respiro si fa profondo, espirando il mio respiro si fa lento (profondo, lento);
inspirando, calmo il mio corpo, espirando metto il corpo a suo agio (calma, agio);
inspirando sorrido, espirando lascio andare tutte le tensioni (sorrido, lascio andare);
inspirando, dimoro nel momento presente, espirando so che è un momento meraviglioso (momento presente, momento meraviglioso).
5.  Manda un augurio alle persone che stanno intorno a te, mentalmente, come ad esempio: “che tu possa essere in pace, felice e leggero nel corpo e nella mente”, oppure “che tu possa essere al sicuro e libero da i pericoli”, o “che tu possa essere libero da rabbia, paura e ansia”. Stai facendo quella che nella tradizione buddhista viene chiamata “metta” o meditazione d’amore, una pratica molto potente e in grado di portare benessere a chi la adotta.
6.   Osserva le persone attorno a te il più possibile direttamente, senza pregiudizi, senza cercare di capire, senza interpretare. Un’osservazione il più possibile libera da attaccamento e avversione ti consentirà di entrare in contatto con la loro umanità più autentica, con le molte cose che hanno in comune con te, di coglierne gli aneliti di desiderio e speranza, ma anche di paura e di sofferenza che, in modi e in misura diversa, sono presenti in ciascuno. Attraverso gli altri entrerai in contatto con la straordinaria bellezza dell’umanità, che è anche la tua bellezza.
7.    L’investigazione è la forma più sofisticata di meditazione ed è praticabile in parte anche in questo caso, specie se non c’è musica di sottofondo o persone accanto che parlano al telefono. Passa in rassegna a turno le 6 “porte” attraverso cui entri in contatto con la realtà: vista, udito, tatto, olfatto, gusto e attività mentale. Ciascuna di esse entra in contatto con fenomeni che provocano sensazioni (ad esempio un suono o un odore) o formazioni mentali (pensieri, stati d’animo, ecc.). Prova a osservarli semplicemente, senza farti trascinare dai pensieri che ne potrebbero scaturire.
PS – Se la fila è col numeretto, mantieni una parte della tua attenzione, quella non principale (“attenzione periferica“) al numero, altrimenti lì in fila ci passi tutta la giornata!

Qui si conclude il copia-incolla dal sito Zen in the city. Trovo tutto molto corretto, solo il punto 6 è un tantino romantico. Il prof. Corrado Pensa consiglia, in un modo più asciutto, l’esercizio dell’”altro anonimo”. Tutte le colte che siamo vicini ad un altro essere umano, cioè praticamente sempre, possiamo fare attenzione all’attività proiettiva-giudicante della nostra mente. Quello è antipatico, è vestito bene oppure volgare, mi sa che è meridionale, urca mica male quella, eccetera. L’attività in tal senso della mente è devastante, e possiamo accorgercene se proviamo a imporci il silenzio mentale, ad esempio, sull’autobus. Ci renderemo allora conto della forza del nostro giudizio. Trascorrere del tempo a contemplare consapevolmente la nostra mente in questa attività non è certo tempo perso.

Della Metta (5) e della contemplazione delle sfere dei sensi (7) parlerò più avanti. Col prossimo post passerò al secondo Satipatthāna: le sensazioni. 

lunedì 17 novembre 2014

Meditazione - Incontro gratuito di novembre

Anche questo mese condurrò un incontro gratuito di meditazione la domenica mattina al Centro Yoga B.K.S Iyengar (Associazione sportiva dilettantistica) di Via Vegezio, 6 a Roma (Zona Balduina).
L'appuntamento è il 23 novembre alle 10.
Info: 388 8542264

giovedì 13 novembre 2014

Suggerimenti di pratica di Ajahn Chah

Abbiamo visto nei precedenti post diversi "esercizi" di contemplazione. Qui di seguito riporto un breve passo del maestro tailandese Ajahn Chah sullo spirito della pratica, uno spirito di indagine attenta valido sia per la pratica seduta che per la vita quotidiana. La "pratica nella vita quotidiana" per chi ci si vuole dedicare, è altrettanto impegnativa quanto la pratica seduta.

"Un altro modo di praticare il Dhamma è quello di contemplare ed esaminare tutto ciò che vediamo, facciamo e sperimentiamo. La meditazione non ha mai fine. Alcuni credono che quando hanno finito le sessioni di meditazione seduta o camminata, bisogna smettere e riposarsi. Smettono di concentrare la mente sull’oggetto di meditazione o sul tema di contemplazione. Li lasciano perdere completamente. Non praticate così. Indagate su ogni cosa che vedete per capire come è realmente. Contemplate la buona gente del mondo. Contemplate anche quella cattiva. Osservate profondamente il ricco e il potente; il povero e il reietto. Quando vedete un bambino, una persona anziana, un giovane o una giovane, indagate sul significato dell’età. Tutto è materiale di indagine. E’ così che coltivate la mente. La contemplazione che porta al Dhamma è la contemplazione della condizionalità, del processo di causa ed effetto, in tutte le sue manifestazioni: maggiore o minore, bianco o nero, buono o cattivo. In breve, tutto. Quando avete un pensiero, riconoscetelo come un pensiero e contemplate che è solo quello, niente di più. Tutte queste cose vanno a finire nel cimitero dell’impermanenza, dell’insoddisfazione e del non-sé, per cui non attaccatevi morbosamente a nessuna di esse. E’ il cimitero di tutti i fenomeni. Seppelliteli o cremateli per poter sperimentare la Verità."


Tratto da "Una pace incrollabile." di Ajahn Chah. (il libro è per la libera distribuzione e può essere scaricato gratuitamente dal sito del Monastero Santacittarama)

lunedì 10 novembre 2014

6. La meditazione secondo il Satipatthāna Sutta.

I 4 elementi e il corpo in decomposizione.
1. (i 4 elementi). Riportiamo la breve istruzione del Buddha: “Egli esamina questo stesso corpo, in qualsiasi luogo sia posato e in qualsiasi modo sia disposto, come consistente di 4 elementi, in questo modo: ‘in questo corpo c’è l’elemento terra, l’elemento acqua, l’elemento fuoco e l’elemento aria.’” Grande è la validità di questa pratica, solo apparentemente anacronistica. Infatti essa ha il pregio di soffermarsi su delle qualità del corpo piuttosto che su delle percezioni materiali, che possono essere considerate le uniche valide perché obbiettive e magari anche “scientifiche”. Portare la consapevolezza su una mano può apparire semplice e concreto, ma in realtà questa non è la sola possibile forma di attenzione, anzi. Possiamo infatti soffermarci sulla qualità della sensazione che proviamo e promuovere così una consapevolezza più completa, inclusiva e meno razionale. La mano ci potrà apparire solida e pesante (terra) attraversata dal flusso sanguigno (qualità del movimento propria dell’aria), la percepiremo calda (fuoco) e dotata di coesione interna, o potremo percepire la qualità della coesione (acqua) sentendo le dita che aderiscono l’un l’altra a causa di una leggera umidità. Questi discorsi possono essere riportati anche assai amplificati, se ad esempio si porta l’attenzione a ciò che si può percepire degli organi interni.
Anche qui il Buddha illustra la pratica con un paragone: l’atteggiamento raccomandato è quello di un macellaio che smembra un vitello. La sua cognizione non sarà più quella di avere a che fare con un singolo animale unitario, ma piuttosto con diversi pezzi di carne. Allo stesso modo si abbandonerà la percezione unitaria di “io, il mio corpo” per arrivare a quella di qualità elementari. Quelle stesse qualità che si possono riscontrare in qualsiasi oggetto o fenomeno che incontriamo. Se percepiamo il calore di un motore, sappiamo che semplicemente c’è del calore, senza identificare con esso il motore. Con questa pratica potremo quindi restare a lungo a contemplare delle qualità relative al nostro corpo senza identificare esse con noi stessi.

2. (il corpo in decomposizione). L’ultima meditazione del Satipatthāna Sutta è difficilmente realizzabile da un moderno praticante occidentale. Nell’India antica, si desume dal discorso, oltre alla cremazione era uso abbandonare i cadaveri in appositi spazi dove venivano lasciati agli elementi e alla natura. In questo passo il Buddha invita i suoi seguaci a recarsi in tali ossari a contemplare i corpi in decomposizione, e la descrizione data è assai vivida e particolareggiata: si parte dalla descrizione di un cadavere morto da 2 o 3 giorni, fino a quella di un ammasso di ossa calcinate che si riducono in polvere. Le ultime parole di questa sezione esortano a paragonare il quello osservato con “questo stesso corpo in questo modo: anche questo corpo è della stessa natura, diventerà così, non può evitare lo stesso fato.” Si noti, anche in questo passo, l’assenza di qualsiasi nota di disprezzo, disgusto: l’esame dell’attenzione consapevole è sempre “clinico” e privo di note depressive.
È inutile dire che tali ossari non sono disponibili per i praticanti italiani, e spesso si sente dire che la morte in occidente sia nascosta e negata. Nondimeno, chi si pone l’obbiettivo di dare un maggiore senso alla propria vita non può evitare di confrontarsi con essa. Una delle pratiche suggerite dal Buddha coinvolgevano il cibo e il respiro: anche se ho in bocca un boccone, anche se ho appena inspirato l’aria, non c’è nessuna garanzia che ci sarà un prossimo boccone o un prossimo respiro.
Il ricordare la morte, l’avvicinarsi con consapevolezza ad essa in qualsiasi modo la vita renda possibile porta, secondo i discorsi, a diversi benefici: contrasta il sorgere o comunque il prevalere dei desideri sensuali, favorisce l’intuizione dell’impermanenza, del non sé (il corpo è costituito da parti, e nessuna di esse è in alcun modo un “centro” essenziale), e del dolore inevitabile in ogni esperienza umana. Il refrain, che segue anche questa sezione, raccomanderà di estendere il paragone: non solo il mio corpo farà l’inevitabile fine del corpo che è contemplato, ma anche i corpi di tutti coloro che incontro sono legati allo stesso destino.
Qualche parola va però spesa su come un occidentale del 2014 possa relazionarsi a questa pratica. Nella vita laica è utopistico puntare ad un drastico ridimensionamento dei desideri, che anzi, possono fornire una sana carica progettuale. Inoltre, di quali desideri parliamo? La parola “desiderio” è quasi sempre associata in primo luogo a quello sessuale o relazionale; in secondo luogo si parla di aspirazione ad una buona carriera, alla sicurezza economica variamente modulata, alla posizione sociale. Tutte queste cose nella nostra vita (credo di poter dire tanto di chi legge quanto di chi scrive) vanno ridimensionale, reindirizzate, comprese e considerate nella giusta misura anche alla luce del Dhamma e della pratica. La consapevolezza in generale chiaramente offre una guida, con il suo lento ma inesorabile lavoro di “centratura” sulle aspirazioni più profonde, corrette e compassionevoli di ognuno. Ma anche il pensiero della morte rimette i nostri desideri e aspirazioni in una prospettiva di maggiore autenticità.
Un “effetto collaterale” sarà anche quello di favorire una graduale preparazione al momento stesso della morte. Molti maestri che ho frequentato, monaci in particolare, sottolineavano come la preparazione alla morte debba passare attraverso una disidentificazione con il corpo che, nel caso del Buddhismo Theravada, non sfocia certo in una re-identificazione con qualcosa, anima, essenza, divinità che sia. Ajahn Vajiro, che ora è abate in nuovo monastero in Portogallo, durante un discorso disse: “la morte è un lasciare andare e, per quel che ne so, mi risulta che tutte le esperienze di lasciar andare siano positive e piacevoli”.
Quindi, la sezione relativa al primo Satipatthāna, il corpo, termina, dopo un lungo e accurato lavoro di consapevolezza, con la prospettiva del lasciar andare.

Pubblicherò ancora 2 post di citazioni che mi sembrano a questo punto molto adatti per un approfondimento della pratica, e poi passerò al secondo Satipatthāna: vedanā, le sensazioni.

giovedì 6 novembre 2014

5. La meditazione secondo il Satipatthāna Sutta.

Il corpo e le sue parti.
È ora la volta del corpo nella sua totalità e nelle sue diverse parti. Molti insegnanti di meditazione moderni, oltre al respiro, vedono nel corpo, appunto nel suo insieme e nelle sue membra e organi, un valido oggetto di attenzione, e a mio avviso è sicuramente così. Anche in ambito “Mindfulness” è diffusa una pratica meditativa chiamata “body scan” nella quale le varie parti del corpo vengono messe sotto l’obbiettivo della consapevolezza in un ordine più o meno sequenziale. Ho personalmente beneficiato molto di questa pratica. Come ho già detto, credo che il corpo offra all’attenzione un ancoraggio assai solido, all’inizio anche più saldo del respiro. Inoltre “passando in rassegna con l’attenzione il proprio corpo”, si possono raggiungere alti livelli di rilassamento e di comprensione intuitivo-energetica della connessione mente-emozioni-corpo. Fatta questa premessa, si può passare ad esaminare ciò che il Buddha esattamente dice nel discorso, per accorgersi subito che il tono generale è molto diverso. Le prime parole di questa sezione sono: “Egli passa in rassegna questo stesso corpo, dalla pianta dei piedi in su e dalla cima della testa in giù, rinchiuso nella pelle, in quanto ripieno di molti tipi di impurità, quali …” E qui inizia un elenco di 31 parti anatomiche, prima le 5 più esterne (capelli, peli, unghie, denti, pelle), poi via via le più interne, includendo carne, ossa, vari organi e infine i fluidi come bile, pus, sangue, sudore, saliva, liquido sinoviale eccetera. Il tutto, ripeto, definito come impurità.
Si può intendere che il corpo venga qui trattato come un microcosmo, essendo anche il macrocosmo, ai tempi del Buddha, costituito da 31 mondi. L’importanza di questa contemplazione è poi confermata dal fatto che essa, indirizzata solamente verso le prime 5 parti esterne, viene a far parte della cerimonia di ordinazione dei novizi (samanera). Non solo. Il fatto che questa sezione sia, come tutte le altre 12 seguita dal “refrain”, fa si che si riceva subito l’istruzione di praticare “internamente ed esternamente”; cioè il praticante viene esortato a contemplare il corpo/impurità non solo in se stesso, ma anche negli altri.
Può qui sorgere un problema. Come si concilia questa esortazione con il legittimo desiderio di molti praticanti di aspirare, tramite la pratica, ad una maggiore autenticità e quindi benessere che includa il corpo, che anzi abbia nel corpo un protagonista della propria crescita interiore? Per rispondere dobbiamo innanzi tutto ricorrere al testo del discorso, in particolare al paragone che a questo proposito il Buddha propone. Egli infatti dice che chi si dispone ad esaminare il proprio corpo secondo le linee guida di cui sopra, è come un uomo dotato di buona vista che vaglia un sacco pieno di grani e legumi, e dice: “questo è riso, questo è grano, queste sono lenticchie, eccetera”. Quindi è un esame “clinico” senza nessun implicazione di disprezzo o disgusto. Le parti del corpo sono “impure” probabilmente alludendo solo al loro aspetto di impermanenza. Diversi insegnanti che ho frequentato affermavano che è vero che il corpo è un ammasso di impurità, se visto nell’ottica dell’impermanenza, ma è altrettanto vero che il corpo è un degnissimo strumento protagonista della nostra vita, meritevole di cure e attenzioni per il suo corretto sviluppo.

E che succede se durante la contemplazione del corpo ci si imbatte, internamente o esternamente in una pelle attraente, o in una bella chioma di capelli? Si può praticare il secondo Satipatthāna (di cui parlerò in post futuri), la consapevolezza delle sensazioni piacevoli, magari etichettando la propria percezione (bei capelli). Se si vuole, ogni esperienza è una occasione di pratica. Tra qualche giorno pubblicherò il proposito delle parole di Ajahn Chah.

lunedì 3 novembre 2014

4. La meditazione secondo il Satipatthāna Sutta.

     Le posizioni e le attività del corpo.
Il discorso prosegue con l’indicazione di focalizzare la propria consapevolezza sulle posizioni e sulle attività del corpo. Per l’esattezza, il Buddha dice che quando il praticante cammina, sta in piedi, seduto o sdraiato “egli sa” di esserlo. Usa invece l’espressione (di equivalente significato) “egli agisce con chiara conoscenza” per indicare la consapevolezza durante le seguenti azioni: andare avanti e indietro; guardare davanti e guardare lontano; flettere ed estendere le proprie membra; indossare il saio, portare il saio esterno e la ciotola delle elemosine; mangiare, bere, consumare il cibo e gustarlo; defecare e urinare; camminare, stare in piedi, addormentarsi, svegliarsi, parlare e stare in silenzio.
Insomma, l’esortazione è chiaramente volta a stabilire uno stato di consapevolezza continua. Anzi, molti commentatori sono concordi nel dire che la consapevolezza su posizioni e attività trova il suo posto più naturale all’inizio della pratica (cosa del resto che si riscontra in una versione cinese del Satipatthāna Sutta). Cioè, una volta consolidata la consapevolezza del corpo nelle sue posizioni e attività, il praticante può approfondire la pratica con l’attenzione sul respiro nella meditazione seduta. Si può immaginare che la versione Pāli riporta il respiro all’inizio per sottolineare la centralità di questa pratica, che di fatto costituisce per molti l’asse portante della vita spirituale. La consapevolezza del respiro è una pratica senza dubbio più sottile e mentre il corpo offre un ancoraggio all’attenzione più solido e concreto.
Questo passo rappresenta una sorta di fondazione della meditazione camminata, pratica molto diffusa tra monaci e laici anche ai tempi del Buddha. Va detto, per fedeltà alla lettera dei testi, che nei discorsi non compare mai l’enfasi di molti maestri moderni sui dettagli percettivi dell’atto del camminare. Infatti molti Sutta sono piuttosto interessati all’aspetto mentale della camminata consapevole che, viene detto, favorisce la concentrazione ed è utile per purificare la mente e superare i 5 ostacoli (su cui torneremo più avanti). Già i commentari antichi esortavano però i praticanti a suddividere mentalmente le varie fasi del camminare per etichettarle e prestarvi così più facilmente attenzione.
Molte delle azioni menzionate in questa sezione del Satipatthāna Sutta sono chiaramente delle esortazioni rivolte ai monaci per una condotta buona e appropriata. Stabilire una base di consapevolezza in questi aspetti della loro vita aveva anche lo scopo di dare quel fondamento morale che, insieme alla moderazione e al contentarsi, costituiscono i requisiti di base per la pratica della meditazione.
Però, con occhi moderni e laici, non si può fare a meno di vedere nelle parole di questo Sutta la risposta a tante istanze con le quali i praticanti cercano di migliorare, e anche rendere più accettabile, la propria vita quotidiana. Anzi, queste raccomandazioni di “consapevolezza nelle azioni di tutti i giorni” sembrano prese dalle istruzioni di un “protocollo Mindfulness” ante litteram. Naturalmente togliere “il pilota automatico” e riappropriarsi della propria vita tramite l’attenzione consapevole è una cosa meravigliosa che non può che far bene a chi si impegna in tal senso. Ma proprio nel “refrain” di cui ho parlato nel post precedente possiamo vedere una differenza irriducibile tra l’atteggiamento “Mindfulness” e il contenuto del Satipatthāna Sutta. Infatti il testo dice: “La consapevolezza che ‘c’è un corpo’ è stabilita in lui nella misura necessaria per la pura conoscenza e la consapevolezza continua”, cosa che può sembrare fine a se stessa ma che non lo è, se si inquadra questa pratica in un’ottica più ampia di conoscenza intuitiva della realtà dei fenomeni, conoscenza che sola può trasformare se stessi. Mentre l’essenza stessa di Mindfulness è una utilità pratica immediata o per lo meno concreta e riscontrabile nella diminuzione della sofferenza dell’utente. Tutte cose buone, basta che siano chiari gli obbiettivi, gli ambiti di applicazione, i percorsi.

Per lo meno questa è la mia opinione, ed essendo questo un blog aperto, chiunque può lasciare un commento o una domanda alla quale sarò felice di rispondere.