Mindfulness

Dato che la Consapevolezza è la mia compagna da diversi decenni, si può dire che la Mindfulness (appunto Consapevolezza o Presenza Mentale) è ciò che più si avvicina ad essere il mio modello teorico di riferimento. Qui di seguito lo illustro rapidamente insieme ad alcune considerazioni personali.

L’ORIGINE.

La storia dei protocolli Mindfulness è assai singolare e ha origine negli Stati Uniti, a Boston, dopo un lungo periodo di sperimentazione portato avanti da un gruppo di praticanti della Meditazione Vipassana (Insight Meditation o Meditazione di Consapevolezza), una pratica diffusa nel buddismo Theravada del sud-est asiatico. L’intento di costoro, tra cui spicca il nome di Jon Kabat-Zinn, biologo molecolare figlio di un “quasi Nobel” e formatosi nelle più prestigiose università americane, era assai pragmatico, in un certo senso molto “americano”. La domanda era: possibile che la Meditazione, da cui loro avevano tratto molti benefici, non possa essere impiegata in modo organizzato e sistematico per alleviare la condizione di coloro che si trovano di fronte ad una sofferenza cui non trovano soluzione? L’ambito originariamente scelto dai pionieri della Mindfulness era medico (nel senso che i protocolli Mindfulness sono stati applicati per la prima volta in ospedale), e si rivolgeva a chi doveva affrontare patologie e situazioni come vari tipi di riabilitazione, dolore cronico, disturbi cardiaci, disturbi del sonno, emicranie, pressione alta, fibromialgia, psoriasi e così via. Sicuramente, a queste persone un medico aveva detto: “la sua vita non sarà più quella di prima”, e molto probabilmente esse, di qualsiasi estrazione religiosa potessero essere, non avevano mai sentito parlare di Meditazione, né necessariamente coltivavano interessi spirituali.
La svolta non arrivò sotto forma di una formulazione teorica, medica o psicologica che sia, anche perché non fu “elaborata”. Piuttosto, Kabat-Zinn ebbe, durante un ritiro di Meditazione, una sorta di visione nella quale si presentò davanti alla sua mente un protocollo operativo in tutti i suoi dettagli. Protocollo che, nel 1979, prese il nome di Mindfulness Based Stress Reduction (MBSR). È da notare che la parola “stress” stava a indicare la sofferenza a ogni livello di chi si trova di fronte ad una malattia grave.
Accettazione, non-giudizio, contemplazione equanime di emozioni e sentimenti, gestione della rabbia, riscoperta di un nucleo saldo ed intangibile del proprio essere: sono tutti strumenti ed obbiettivi del MBSR, che ha una durata di 8 settimane e si articola in incontri settimanali di gruppo di due ore o poco più. Ai partecipanti vengono date istruzioni su diversi tipi di contemplazioni mutuate dalle pratiche buddiste: consapevolezza del corpo, del respiro, dei suoni, delle sensazioni, meditazione di benevolenza. Gli esercizi praticati negli incontri di gruppo devono essere ripetuti da ognuno individualmente a casa ogni giorno. Ci sono poi “compiti a casa” che vertono sulla consapevolezza nello svolgere semplici attività quotidiane (lavare i piatti, prendere l’autobus), o sull’attenta registrazione di emozioni positive o negative e delle proprie reazioni.
Non andrò nei dettagli, ma credo sia chiaro che l’intento è far sì che la sofferenza non costituisca l’ultimo orizzonte di chi si trova ad affrontare un radicale sconvolgimento della propria vita. Se la mia situazione non può cambiare, allora cambierà il modo in cui io la percepisco e la affronto. Non verrò annullato dalla malattia ma, con un percorso di accettazione sostenuto dalla pratica della Consapevolezza, troverò il mio modo di convivere con essa e di andare oltre.

GLI SVILUPPI

Dal 1979 ad oggi abbiamo assistito ad uno sviluppo inarrestabile della Mindfulness, di cui ormai si tratta in numerosissimi libri, alcuni di gran successo, e in migliaia di articoli di riviste specializzate in psicologia e psichiatria. Dopo un altro notevole passo in avanti con l’elaborazione della Mindfulness Based Cognitive Therapy (MBCT) che trova applicazione nella prevenzione delle ricadute nella depressione, ormai si parla di numerosissimi tipi di “MBI’s” (Interventi Basati sulla Mindfulness), che affrontano le più diverse situazioni e patologie: le dipendenze patologiche, gli attacchi di panico, l’ansia, il disturbo ossessivo compulsivo, ecc. In generale si tratta sempre di protocolli in cui operatori specificatamente formati si rivolgono a gruppi per una durata quasi sempre di 8 settimane, con alcuni esercizi in comune e altri più specifici, riguardanti il disturbo in questione. L’efficacia di tali interventi è ormai ampiamente provata da numerosi studi e ricerche.

PUNTI PROBLEMATICI

Chiunque cerchi su Google la parola “Mindfulness” vedrà apparire migliaia di siti, articoli, libri, riviste e quant’altro sull’argomento. Ad una più attenta analisi si vedrà che quasi tutti appartengono alla corrente della Psicologia Cognitivo-Comportamentale. Come è noto, questa ultima, sviluppatasi principalmente negli Stati Uniti, ha un approccio assai pragmatico, e le sue formulazioni hanno un’impostazione molto diversa dagli imponenti edifici teorici delle varie correnti della Psicoanalisi europea. Il problema sorge nel momento in cui anche la Mindfulness viene affrontata con un atteggiamento manualistico, tradendo, a mio avviso, le sue stesse origini. Non si tratta qui (o si tratta solo in parte, secondo alcuni) di preservare la purezza delle origini buddiste dei protocolli, ma di mantenere viva la natura profondamente esperienziale del costrutto. In parole povere, chi non ha passato anni a contemplare le proprie emozioni negative, la natura impermanente dei propri stati mentali e così via, difficilmente, riuscirà, solo per aver studiato il manuale per operatori di un determinato protocollo a trasmettere, ad esempio, un sentimento di autentica e profonda accettazione di una patologia grave.

IL MIO PUNTO DI VISTA

In quanto praticante della Meditazione Vipassanā da circa 30 anni, non posso non sentirmi in qualche modo affratellato con chi parla di Consapevolezza e invita a dirigere la propria attenzione cosciente sul corpo o sul respiro, come fanno gli operatori Mindfulness. Ma se di modelli teorici dobbiamo parlare (e nella mia professione di Counselor forse non è strettamente necessario), rispetto alla Psicologia Cognitivo-Comportamentale mi sento senz’altro più affini le 3 Condizioni Essenziali (Core Conditions) della relazione d’aiuto di Carl Rogers, esponente della psicologia umanistica. L’empatia (1) è l’atteggiamento di “mettersi nei panni dell’altro”, di calarsi nel suo modo di vedere e di sentire pur restando centrati e attivando le proprie capacità di avvertire il senso di quanto viene portato nell’incontro. La considerazione positiva incondizionata (2) è la condizione che consente di accogliere ed utilizzare come spunto di crescita tutto ciò che viene portato dal Cliente, anche quanto vissuto come negativo, magari immorale o oggetto di vergogna. La congruenza (3) è poi un punto determinante. Accompagnare un Cliente in una contemplazione, saper attendere i suoi tempi di elaborazione, dar spazio alle sue esitazioni ed incertezze, spesso così ricche di nuovi contenuti, deve essere preceduta da un lavoro su se stessi che renda l’operatore in grado di avere in sé spazio sufficiente per accogliere i temi presentati e per costituire un centro sufficientemente saldo su cui temporaneamente appoggiarsi. Anche perché il Counselor si prende la responsabilità di rimandare esplicitamente, con i dovuti tempi e modi, quanto al Cliente può essere oscuro o sentito come minaccioso.

Per concludere, se nei miei biglietti da visita ho scritto “Mindfulness Counselor”, non è perché aderisco alla corrente principale oggi in voga della Mindfulness cognitivo-comportamentale, ma piuttosto perché la pratica della Consapevolezza (Mindfulness), da me portata avanti in decenni di pratica della Meditazione, viene da me applicata anche nel mio studio di Counseling, sia con il mio atteggiamento generale di accettazione e ascolto mediato dalle 3 Condizioni di cui sopra, sia, a volte, da tecniche e modalità di indagine mutuate dal buddismo.

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