Gli incontri di
counseling spesso iniziano con un vuoto, ma di un tipo di vuoto aspro e
antipatico. Si sente che il cliente si sforza a parlare, e il flusso delle sue
parole non viene dal cuore, ma dal desiderio di dire qualcosa di intelligente e
accettabile. Chiede aiuto, ma si difende da esso. Il counselor, (o per lo meno
io) da parte sua si trova in una situazione di tensione o di confusione,
provando un disagio che messo in parole suonerebbe: “come rispondo, cosa le/gli
può far bene, come posso dare l’impressione di essere un professionista
all’altezza delle richieste”?
È lì che rientrare in
se stessi può voler dire non una chiusura, ma un tornare a casa, riconnettersi,
essere presenti e “sentire” le varie sfumature della situazione. È il miracolo
dell’accettazione e della consapevolezza. Ci si rende conto che forse lo spazio
tra sé e il cliente non è un vuoto né è solo pieno di aria, ma va riempiendosi
di uno scambio che va al di là dei contenuti che si avvicendano nel dialogo. L’esperienza
che faccio è che, pur riuscendo in grandi linee a “tenere il filo” di quello
che accade negli incontri, letteralmente “dimentico” i dettagli delle parole e
degli argomenti, anche quelli che escono dalla mia bocca. La sfera cognitiva
rimane indietro e si perde in una materia che non è la sua. Rimane una sorta di
sostanza energetica concreta, che si può nettamente percepire, e magari qualche
parola chiave di raccordo con il campo cognitivo.
Quando questo accade, e
tutto sommato non è raro, so che qualcosa è cambiato nel cliente, in me, in
noi. Questo processo è la convergenza di molti fattori, ma la “pietra
filosofale”, l’enzima è la consapevolezza, condita e accompagnata da silenzio,
accettazione anche e soprattutto di ciò che non ci piace, non giudizio. Mi chiedo,
e chissà che ne pensano i miei colleghi con i quali condivido la visione
Mindfulness della pratica del counseling, ma non è che l’empatia è in parole
povere consapevolezza condivisa?
Così,
in relazione alla mente dimora contemplando la mente internamente …
esternamente … sia internamente sia esternamente.
Questa frase del
Satipatthana Sutta, dove internamente ed esternamente significa contemplare la
mente in se stessi e negli altri, diventerebbe la prima descrizione operativa
dell’empatia come mezzo di sviluppo personale.