lunedì 18 maggio 2015

I silenzi sconfortanti del counseling

Gli incontri di counseling spesso iniziano con un vuoto, ma di un tipo di vuoto aspro e antipatico. Si sente che il cliente si sforza a parlare, e il flusso delle sue parole non viene dal cuore, ma dal desiderio di dire qualcosa di intelligente e accettabile. Chiede aiuto, ma si difende da esso. Il counselor, (o per lo meno io) da parte sua si trova in una situazione di tensione o di confusione, provando un disagio che messo in parole suonerebbe: “come rispondo, cosa le/gli può far bene, come posso dare l’impressione di essere un professionista all’altezza delle richieste”?
È lì che rientrare in se stessi può voler dire non una chiusura, ma un tornare a casa, riconnettersi, essere presenti e “sentire” le varie sfumature della situazione. È il miracolo dell’accettazione e della consapevolezza. Ci si rende conto che forse lo spazio tra sé e il cliente non è un vuoto né è solo pieno di aria, ma va riempiendosi di uno scambio che va al di là dei contenuti che si avvicendano nel dialogo. L’esperienza che faccio è che, pur riuscendo in grandi linee a “tenere il filo” di quello che accade negli incontri, letteralmente “dimentico” i dettagli delle parole e degli argomenti, anche quelli che escono dalla mia bocca. La sfera cognitiva rimane indietro e si perde in una materia che non è la sua. Rimane una sorta di sostanza energetica concreta, che si può nettamente percepire, e magari qualche parola chiave di raccordo con il campo cognitivo.
Quando questo accade, e tutto sommato non è raro, so che qualcosa è cambiato nel cliente, in me, in noi. Questo processo è la convergenza di molti fattori, ma la “pietra filosofale”, l’enzima è la consapevolezza, condita e accompagnata da silenzio, accettazione anche e soprattutto di ciò che non ci piace, non giudizio. Mi chiedo, e chissà che ne pensano i miei colleghi con i quali condivido la visione Mindfulness della pratica del counseling, ma non è che l’empatia è in parole povere consapevolezza condivisa?

Così, in relazione alla mente dimora contemplando la mente internamente … esternamente … sia internamente sia esternamente.


Questa frase del Satipatthana Sutta, dove internamente ed esternamente significa contemplare la mente in se stessi e negli altri, diventerebbe la prima descrizione operativa dell’empatia come mezzo di sviluppo personale.