Il secondo dei cinque
ostacoli, l’avversione, è stato il filo conduttore dell’incontro di meditazione
del 29 novembre scorso. Ho introdotto il tema ricordando che essa può essere
annoverata tra le pulsioni primarie dell’essere umano quasi a livello di
specie. Se la cura di se stesso e degli individui più prossimi è alla base di
molti sentimenti di vicinanza e di affetto, la paura e l’aggressione sono
probabilmente alla base dell’avversione, che mi risulta essere uno stato
mentale molto più pervasivo e potente di quanto risulti ad un primo sguardo.
La meditazione che ho
proposto e guidato ha ripercorso quella dell’incontro precedente: si parte
sempre da un radicamento nel corpo e nel respiro, in modo da potersi aprire a
osservazioni più profonde. Ho poi invitato i partecipanti a scandagliare il
proprio sistema mente-cuore-corpo per scoprire se nel qui ed ora fossero
presenti sensazioni o stati mentali spiacevoli, o pensieri in qualche modo
negativi. Invece di relegarli sullo sfondo della propria esperienza, di
ignorarli o reprimerli ho chiesto di prestarvi un'attenzione centrata e sostenuta, e
sentire che cosa succedeva. E ho chiuso il periodo di meditazione invece chiedendo
di pensare deliberatamente a qualcosa o qualcuno che suscitasse avversione
(evitando argomenti troppo astratti, lontani o assoluti, come il terrorismo – o
i terroristi -, la fame nel mondo o i politici disonesti). Dopo che il pensiero
si era formato in termini di immagine, evocazione o altro, ho dato l’indicazione
di scandagliare di nuovo il proprio stato, per fare l’esperienza diretta di
come la mente negativizzata produca risonanze in tutto il nostro essere.
La successiva condivisione
ha molto risentito della negatività dell’argomento. L’avversione produce stati
psicofisici negativi anche nostro malgrado. Ormai tutti sono d’accordo nel
sostenere che trovarsi in uno stato di avversione, per quanto legittimo, giusto
o corretto possa essere percepito, non “ci fa bene”. La consapevolezza tanto
degli aspetti fisici quanto di quelli mentali si può rivelare una preziosa
risorsa: accorgersi può voler dire cominciare a liberarsi.
Nella pratica della
meditazione si incontrano continuamente spunti di avversione, a partire dai
vari dolori fisici, e tra i partecipanti c’è stata la consueta varietà di
atteggiamenti: la consapevolezza porta sollievo (in genere sciogliendo tensioni
muscolari non notate) oppure peggiora la situazione, acuendo la percezione
della sofferenza. Nel mezzo ci sono tutte le sfumature possibili. Trattare questo argomento elementare ma profondo necessita una guida in carne ed ossa.
A un certo punto,
durante la meditazione, è passata in lontananza una piccola banda di ottoni e
percussioni che intonava una medley di canti natalizi. Io ho provato una forte
avversione e la mia mente ha cominciato a produrre giudizi sull’impostazione
delle armonie e sulle incoerenze ritmiche. Ho potuto comunque seguire lo spegnersi dell’avversione
sullo spunto delle considerazioni che io stesso proponevo ai presenti: è solo avversione;
la mia è una sovrapposizione condizionata ai semplici suoni che percepisco; posso
includere questi suoni e prenderli solo come tali nell’orizzonte della mia
percezione / consapevolezza. È stato divertente notare le altre differenti
reazioni a questo episodio e molti hanno invidiato la persona che ha chiesto: “musica?
Quale musica?”
Una sessione sull’avversione
non poteva che concludersi con una meditazione di benevolenza, che è un suo
antidoto diretto. Anche in questo caso, Metta significa in primo luogo
benevolenza verso se stessi, in quanto vittime della tendenza innata all’avversione
verso ciò che sulla base dei nostri condizionamenti ci appare spiacevole.
Prossimo incontro il 20
dicembre alle 10 e sarà il turno di indolenza e torpore.
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