I Dhamma – I 5
ostacoli.
Affrontiamo ora il
quarto e ultimo Satipatthāna che è noto come “I Dhamma” e che è costituito,
come il primo, il Corpo, da diverse sezioni, in questo caso 5. È necessario
soffermarsi sul significato del termine “Dhamma”, tanto per precisione quanto
perché non c’è unanimità su di esso. La parola Dhamma (e il suo più noto
corrispondente sanscrito Dharma che ricorre anche nell’induismo) può
significare molte cose. Se l’etimologia fa riferimento ad una sorta di legge
naturale eterna (“ciò che sostiene tutte le cose”), nell’uso corrente,
anche nell’antichità, ha assunto il significato di quello che noi in occidente
chiameremmo “religione”, o anche più specificatamente “insegnamento” (“il
Dhamma del Buddha”). Nei Discorsi, il Buddha usa frequentemente questa parola
anche per indicare ciò che è all’interno dell’ordine cosmico, vale a dire i
fenomeni.
Questo ha spinto molti
commentatori a intendere i Dhamma-come-Satipatthāna con il significato di
“fenomeni mentali”, una sorta di “varie ed eventuali” (ho sentito personalmente
un insegnante usare in questo senso la parola inglese “sundries”) dei contenuti
mentali. Così il terzo Satipatthāna si riferisce agli stati mentali (qualità),
mentre il quarto ai contenuti.
Preferisco per molti
motivi attenermi a coloro (e tra essi Ajahn Anālayo, che è la maggiore fonte di
ispirazione di questi post) che invece restituisce alla parola Dhamma il
significato di insegnamento, o elementi dell’insegnamento. I cinque Dhamma
trattati nel Satipatthāna Sutta sono:
1)
I
cinque ostacoli.
2)
I
cinque aggregati.
3)
Le
sei basi dei sensi.
4)
I
sette fattori dell’illuminazione.
5)
Le
Quattro Nobili Verità.
Non si tratta, a mio
avviso, tanto di oggetti mentali, ma di specifiche qualità mentali e di analisi
dell’esperienza secondo determinate categorie, o anche criteri da applicare nel
lavoro consapevolezza degli oggetti mentali. Per dirla in breve, l’invito è di
considerare la propria esperienza interiore alla luce della dottrina, non in
una modalità filosofica ma sempre esperienziale, attenendosi al qui e ora,
stando con “quello che c’è”. I cinque Dhamma sopraelencati ricorrono nel
discorso in una sequenza progressiva, che accompagna il progredire del
praticante: una volta affrontati i cinque ostacoli si potrà vedere se stessi in
termini più essenziali, vale a dire che si farà l’esperienza di se stessi come
costituiti dai cinque aggregati e operanti mediante le sei sfere dei sensi. A
quel punto si potranno sviluppare i sette fattori dell’illuminazione che
condurranno alla realizzazione delle Quattro Nobili Verità.
Vediamo i 5 ostacoli,
che a ben vedere sono 7:
1.
Desiderio
sensuale.
2.
Avversione.
3.
Torpore
e indolenza.
4.
Agitazione
e preoccupazione.
5.
Dubbio.
In più, il Buddha non
prescrive soltanto la consapevolezza dell’esistenza o meno, in un dato momento,
di questo o quell’ostacolo, ma esorta a:
1.
Se
sta sorgendo, conoscere le condizioni che conducono al sorgere del determinato
ostacolo.
2. Se presente, conoscere le condizioni
che conducono al suo cessare.
3.
Se
rimosso, conoscere le condizioni che possono prevenire il suo futuro risorgere.
Il lavoro è quindi ben
delineato, e può svolgersi tanto in termini discorsivi quanto più sottili,
sempre passando attraverso la consapevolezza, un “sentire” che si articola a
più livelli, i “soliti” corpo-cuore-mente. Questo secondo lavoro è necessario
soprattutto se il semplice “notare” non è accompagnato immediatamente dallo
svanire dell’ostacolo.
Ma ci sono altre
considerazioni da fare: desiderio e avversione sono, insieme alla confusione, i
classici “tre veleni”, il substrato o “tendenze latenti” che sono alla base del
nostro reagire alla sofferenza creando più sofferenza. A rigor di termini, ogni
oggetto mentale non salutare può essere classificato come derivante dal
desiderio o dall’avversione. Il lavoro proposto dal Satipatthāna Sutta può
essere utile in termini di indagine e di discriminazione.
Un altro aspetto
importante concernente l’ostacolo “Avversione” è il suo antidoto: la benevolenza
o gentilezza amorevole, insomma, la ben nota Mettā. Essa può sì essere
impiegata inizialmente per superare l’avversione, ma la sua pratica ha infinite
potenzialità, mano mano che si scoprirà dentro di sé l’estensione infinita dell’avversione.
Molti maestri usano la Mettā come pratica preparatoria alla meditazione di
Visione Profonda.
Gli antidoti a torpore
e indolenza e a agitazione e preoccupazione possono apparire diciamo così “tecnici”
(nel primo caso respirare profondamente o alzarsi, nel secondo una delle tante
pratiche volte ad acquietare la mente – ne ho parlato nel precedente post), ma
non sempre bastano, specialmente quando il sorgere di questi ostacoli è
frequente e sistematico. Anche in questo caso è necessario approfondire l’indagine.
In questo contesto il
dubbio viene visto come la mancanza di capacità di distinguere ciò che è
salutare da ciò che non lo è, e si capisce da quanto sopra che questa è un’abilità
fondamentale nella consapevolezza: consapevolezza di ciò che è, in una realtà
mutevole e sfuggente. L’antidoto al dubbio, non a caso, è l’investigazione del
Dhamma (ed è bene notare che non è la fede).
Infine, voglio
ricordare che è generalmente inteso che gli stati di assorbimento meditativo (jhana)
sono possibili nel momento in cui i cinque ostacoli sono rimossi o anche
temporaneamente sospesi. Ciò produce una condizione piacevole, e questo piacere
conduce alla concentrazione. Il superamento dei cinque ostacoli è quindi
importante sia dal punto di vista della Visione Profonda (Vipassanā) che da
quello della Calma Mentale (Samathā).
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