martedì 10 febbraio 2015

11. La meditazione secondo il Satipatthāna Sutta - I 5 ostacoli

I Dhamma – I 5 ostacoli.
Affrontiamo ora il quarto e ultimo Satipatthāna che è noto come “I Dhamma” e che è costituito, come il primo, il Corpo, da diverse sezioni, in questo caso 5. È necessario soffermarsi sul significato del termine “Dhamma”, tanto per precisione quanto perché non c’è unanimità su di esso. La parola Dhamma (e il suo più noto corrispondente sanscrito Dharma che ricorre anche nell’induismo) può significare molte cose. Se l’etimologia fa riferimento ad una sorta di legge naturale eterna (“ciò che sostiene tutte le cose”), nell’uso corrente, anche nell’antichità, ha assunto il significato di quello che noi in occidente chiameremmo “religione”, o anche più specificatamente “insegnamento” (“il Dhamma del Buddha”). Nei Discorsi, il Buddha usa frequentemente questa parola anche per indicare ciò che è all’interno dell’ordine cosmico, vale a dire i fenomeni.
Questo ha spinto molti commentatori a intendere i Dhamma-come-Satipatthāna con il significato di “fenomeni mentali”, una sorta di “varie ed eventuali” (ho sentito personalmente un insegnante usare in questo senso la parola inglese “sundries”) dei contenuti mentali. Così il terzo Satipatthāna si riferisce agli stati mentali (qualità), mentre il quarto ai contenuti.
Preferisco per molti motivi attenermi a coloro (e tra essi Ajahn Anālayo, che è la maggiore fonte di ispirazione di questi post) che invece restituisce alla parola Dhamma il significato di insegnamento, o elementi dell’insegnamento. I cinque Dhamma trattati nel Satipatthāna Sutta sono:
1)    I cinque ostacoli.
2)    I cinque aggregati.
3)    Le sei basi dei sensi.
4)    I sette fattori dell’illuminazione.
5)    Le Quattro Nobili Verità.
Non si tratta, a mio avviso, tanto di oggetti mentali, ma di specifiche qualità mentali e di analisi dell’esperienza secondo determinate categorie, o anche criteri da applicare nel lavoro consapevolezza degli oggetti mentali. Per dirla in breve, l’invito è di considerare la propria esperienza interiore alla luce della dottrina, non in una modalità filosofica ma sempre esperienziale, attenendosi al qui e ora, stando con “quello che c’è”. I cinque Dhamma sopraelencati ricorrono nel discorso in una sequenza progressiva, che accompagna il progredire del praticante: una volta affrontati i cinque ostacoli si potrà vedere se stessi in termini più essenziali, vale a dire che si farà l’esperienza di se stessi come costituiti dai cinque aggregati e operanti mediante le sei sfere dei sensi. A quel punto si potranno sviluppare i sette fattori dell’illuminazione che condurranno alla realizzazione delle Quattro Nobili Verità.
Vediamo i 5 ostacoli, che a ben vedere sono 7:
1.    Desiderio sensuale.
2.    Avversione.
3.    Torpore e indolenza.
4.    Agitazione e preoccupazione.
5.    Dubbio.
In più, il Buddha non prescrive soltanto la consapevolezza dell’esistenza o meno, in un dato momento, di questo o quell’ostacolo, ma esorta a:
1.    Se sta sorgendo, conoscere le condizioni che conducono al sorgere del determinato ostacolo.
2.    Se presente, conoscere le condizioni che conducono al suo cessare.
3.    Se rimosso, conoscere le condizioni che possono prevenire il suo futuro risorgere.
Il lavoro è quindi ben delineato, e può svolgersi tanto in termini discorsivi quanto più sottili, sempre passando attraverso la consapevolezza, un “sentire” che si articola a più livelli, i “soliti” corpo-cuore-mente. Questo secondo lavoro è necessario soprattutto se il semplice “notare” non è accompagnato immediatamente dallo svanire dell’ostacolo.
Ma ci sono altre considerazioni da fare: desiderio e avversione sono, insieme alla confusione, i classici “tre veleni”, il substrato o “tendenze latenti” che sono alla base del nostro reagire alla sofferenza creando più sofferenza. A rigor di termini, ogni oggetto mentale non salutare può essere classificato come derivante dal desiderio o dall’avversione. Il lavoro proposto dal Satipatthāna Sutta può essere utile in termini di indagine e di discriminazione.
Un altro aspetto importante concernente l’ostacolo “Avversione” è il suo antidoto: la benevolenza o gentilezza amorevole, insomma, la ben nota Mettā. Essa può sì essere impiegata inizialmente per superare l’avversione, ma la sua pratica ha infinite potenzialità, mano mano che si scoprirà dentro di sé l’estensione infinita dell’avversione. Molti maestri usano la Mettā come pratica preparatoria alla meditazione di Visione Profonda.
Gli antidoti a torpore e indolenza e a agitazione e preoccupazione possono apparire diciamo così “tecnici” (nel primo caso respirare profondamente o alzarsi, nel secondo una delle tante pratiche volte ad acquietare la mente – ne ho parlato nel precedente post), ma non sempre bastano, specialmente quando il sorgere di questi ostacoli è frequente e sistematico. Anche in questo caso è necessario approfondire l’indagine.
In questo contesto il dubbio viene visto come la mancanza di capacità di distinguere ciò che è salutare da ciò che non lo è, e si capisce da quanto sopra che questa è un’abilità fondamentale nella consapevolezza: consapevolezza di ciò che è, in una realtà mutevole e sfuggente. L’antidoto al dubbio, non a caso, è l’investigazione del Dhamma (ed è bene notare che non è la fede).

Infine, voglio ricordare che è generalmente inteso che gli stati di assorbimento meditativo (jhana) sono possibili nel momento in cui i cinque ostacoli sono rimossi o anche temporaneamente sospesi. Ciò produce una condizione piacevole, e questo piacere conduce alla concentrazione. Il superamento dei cinque ostacoli è quindi importante sia dal punto di vista della Visione Profonda (Vipassanā) che da quello della Calma Mentale (Samathā).

Nessun commento:

Posta un commento