I Dhamma – I 5
aggregati
Si passa ora alla
contemplazione dei 5 aggregati, che costituiscono i “mattoni” che costruiscono
l’erroneo convincimento che esista un “me stesso”. I cinque aggregati sono:
1.
La
forma materiale.
2.
La
sensazione.
3.
La
cognizione.
4.
La
volizione.
5.
La
coscienza.
Il termine usato dal
Buddha, pañcupādānakkhanda, significa letteralmente “cinque aggregati
dell’attaccamento”. “Attaccamento” si riferisce alla bramosia che questi
aggregati suscitano, che a sua volta è la causa radicale della sofferenza.
Vengono chiamati “aggregati” perché il termine viene inteso come una sorta di
ombrello per tutte le possibili istanze di ogni termine: passato, presente o
futuro, interno o esterno, sottile o grossolano, inferiore o superiore,
eccetera. Per quanto possa oggi apparire singolare, c’è motivo di credere che
parlare di cinque aggregati fosse tanto ordinario nell’India antica quanto per
le carmelitane del XVI secolo parlare di “potenze dell’anima”
In termini pratici, è
come se il Buddha volesse rispondere a questa domanda: “basandoci
esclusivamente sulla nostra esperienza, quali sono le componenti che
costituiscono la nostra individualità, il nostro sentirci un io”? La risposta è
che c’è un corpo materiale (1), che prova delle sensazioni piacevoli, spiacevoli
o neutre (2), fa cioè un esperienza qualitativa della realtà. Sulla base delle
percezioni, formuliamo delle elaborazioni cognitive (3), che ci consentono
(anche sulla base della memoria, termine a volte usato in alternativa a
“cognizioni”) di sapere che cosa abbiamo di fronte. A questo punto la nostra
azione si indirizzerà seguendo delle direttrici fondate sulla nostra volontà
(4). Tutto questo processo è osservato dalla coscienza (5), e questa
osservazione darà luogo alla convinzione inconscia (che è però per noi il dato
più ovvio e “normale” che si affaccia al nostro essere vivi in questo mondo) che
esista una individualità, un nucleo soggettivo cui esso si può riferire. Il
discorso, però intende minare questo stato di cose con il consueto metodo della
consapevolezza e della chiara comprensione: si raccomanda infatti, per ognuno
degli aggregati di:
1.
Osservarlo.
2. Osservarne il sorgere.
3.
Osservarne
il cessare.
Di nuovo, il punto
cardine della pratica è l’osservazione dell’impermanenza. Ripetiamo la domanda
dalla quale siamo partiti: “basandoci esclusivamente sulla nostra esperienza,
quali sono le componenti che costituiscono la nostra individualità, il nostro
sentirci un io”? C’è un corpo che sussiste a condizione che gli siano forniti
cibo, acqua e altri requisiti minimi; ci sono delle sensazioni che sorgono,
cessano e cambiano continuamente (e lo stesso può dirsi delle cognizioni), in
un continuo gioco di condizionamenti e reazioni. La nostra volontà in questo
senso non è autonoma, ma schiava dei due aggregati precedenti. La coscienza,
infine, rispecchia questo processo dinamico e a sua volta in esso si
rispecchia. Nel momento in cui si contempla a fondo l’impermanenza di tutto
questo insieme di rimandi e dei suoi singoli componenti, e si contempla come
tutto ciò sia, come si usa oggi dire, autoreferenziale, si può avere
l’intuizione dell’anattā, o non-sé, termine con il quale il Buddha pone la sua
differenziazione dalle visioni nichiliste quanto da quelle sostanzialiste.
L’intuizione liberatoria è quella di realizzare che, sulla base della nostra
esperienza, non constatiamo l’esistenza di nessun ente esistente in sé, e allo
stesso tempo la contemplazione dell’infinita rete di condizionamenti, nei quali
siamo parte attiva volenti o nolenti, non ci esime dalla responsabilità
personale delle nostre azioni, allontanandoci così dalle posizioni nichiliste.
La contemplazione dei 5
aggregati svela la loro vera natura: sono semplici proiezioni.
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